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Sapevi che dopo il dolce, il salato, l’aspro e l’amaro puoi percepire anche l’umami? E’ quel misterioso quinto gusto, un ricettore presente nel nostro cavo orale. Ma scopriamolo nel dettaglio.
Umami in giapponese significa saporito. Il sapore è assimilabile al glutammato, che è contenuto in molti cibi ricchi di proteine come la carne e il formaggio.
La sua scoperta si basa su alcuni studi intrapresi nel 1908 dal chimico Kikunae Ikeda, docente universitario a Tokyo. Il professore isolò l’acido glutammico da un brodo di alghe marine konbu contenuto in grande quantità e lo indicò come fonte di un nuovo sapore. Alcuni studi più recenti ci indicano che questo quinto gusto fa proprio bene alla salute. Chi ne è insensibile, infatti, soffre di mancanza di salivazione e di appetito, con conseguente diminuzione del peso corporeo.
Da sempre conviviamo con questo sapore senza averlo mai battezzato. Ci sono molti cibi che lo contengono in maniera naturale come il Parmigiano Reggiano, alcuni funghi, il prosciutto crudo, le sardine e il tonno.
Poi ancora, le carni di manzo, pollo e maiale, i piselli, i broccoli, le cipolle o i pomodori molto maturi. Mentre nella cucina giapponese lo troviamo nella salsa di soia, nel miso, nel brodo dashi, nel katsuobushi (una bottarga di tonno) e nei funghi shitiaki essiccati.
Gli americani hanno voluto concentrare il quinto senso in un unico cibo: l’umami burger. Anzi, hanno fatto di meglio, aprendo una catena dove degustare un unico hamburger composto da chips di Parmigiano, pomodoro al forno, cipolle caramellate, funghi shiitaki e ketchup.
Sempre negli Stati Uniti, a Hollywood, il bartender Jared Boll serve il drink umami. Un cocktail che contiene vino dolce di riso, yuzu (un agrume), peperoncino, sale marino e un burbon giapponese ai funghi.
In Italia, ad Adria, Felice Sgarra e a Bormio, Antonio Borruso hanno nominato i loro ristoranti stellati Umami. Mentre lo chef Gianfranco Pascucci ha intitolato un suo piatto Ravioli Umami gel di pomodoro e basilico, creato con un brodo di lische di alici.
Ma andiamo oltre. Nel 2012 un gruppo di ricercatori della Washington University School of Medicine ha captato un ulteriore ricettore sulla nostra lingua. Oltre all’umami pare che riusciamo a identificare anche i grassi nei cibi.
Grazie al lavoro di papille specializzate nella percezione del cosiddetto “fat”, ovvero il sesto gusto. Quel gene che regola la sensazione che proviamo quando ingeriamo cibi ipercalorici. Per alcuni è quasi impossibile introdurre una fetta di grasso in bocca, mentre per altri è un bisogno.
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